Biennale Arte 2024, Stranieri ovunque/Foreigners everywhere, fino al 24 novembre
Venezia. Gli artisti della 60° edizione della Biennale Arte: outsiders, queer, indigeni, diasporici, esiliati, sciamani e rifugiati
Il titolo della la 60° edizione della Biennale Arte, Stranieri ovunque/Foreigners everywhere, è tratto da una serie di lavori al neon, che riportano in diverse lingue e colori il titolo, “Stranieri ovunque”, realizzati dal collettivo anarchico Claire Fontaine. L’espressione è ripresa dal nome di un collettivo torinese, Stranieri Ovunque, che, all’inizio del Duemila, combatteva il razzismo e la xenofobia in Italia. La serie è esposta in una nuova installazione alle Gaggiandre nell’Arsenale. Ovunque si vada e ovunque ci si trovi si troveranno degli stranieri e, in particolare a Venezia, gli stranieri sono ovunque, per non parlare del Mediterraneo.
Adriano Pedrosa, primo curatore sudamericano e queer nella storia dell’istituzione veneziana, ha selezionato artisti stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, emigrati, rifugiati. I temi di questa Biennale sono migrazione e decolonizzazione. Sono 331 gli artisti presenti (queer, indigeni e outsider), oltre cento rispetto all’edizione precedente, Il Latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani nel 2022.
PREMI E VINCITORI
I Leoni d’Oro alla carriera assegnati ad Anna Maria Maiolino e Nil Yalter (che dedica il suo premio “alla pace nel mondo”)
Leone d’oro per la migliore Partecipazione Nazionale: Australia, per Kith and Kin dell’artista Archie Moore
Il Leone d’oro per il miglior artista partecipante al collettivo tutto femminile di artiste Maori: Mataaho Collective della Nuova Zelanda
Leone d’argento per il miglior partecipante giovane: Karimah Ashadu (britannico-nigeriano).
La Biennale Arte presenta un Nucleo contemporaneo e un Nucleo storico, opere del XX secolo provenienti dall’America Latina, dall’Africa, dall’Asia e dal mondo arabo, per rileggere il passato da un punto di vista altro. Questo corpus è composto di tre sale nel Padiglione Centrale ai Giardini: una intitolata Ritratti, la seconda dedicata alle Astrazioni e una terza sala dedicata alla diaspora artistica italiana nel mondo lungo il corso del XX secolo. Opere di artiste e artisti asiatici, africani, centro-sudamericani e oceanici che inducono a rivedere il concetto di confini geografici. Il nucleo storico intitolato Italiani Ovunque presenta opere, di artisti italiani emigrati all’estero, esposte su cavalletti con vetro trasparente. Beneficiando così del recupero di un allestimento progettato per il Museu de Arte de São Paulo in Brasile (di cui Pedrosa è direttore) da Lina Bo Bardi (Leone d’Oro speciale alla memoria della Biennale Architettura).
ARSENALE
Ad accogliervi all’Arsenale ci sarà l’Astronauta rifugiato di Yinka Shonibare (britannico-nigeriano) che avrebbe meritato, a detta di molti, di essere premiato. L’uomo del futuro, un astronauta a grandezza naturale, che porta un carico di oggetti di ogni tipo, gli serviranno nella sua destinazione? Un carico di consumismo di plastica inquinante, non più sostenibile. Un’opera contro l’accumulo e la ricerca di una crescita continua. Se il pianeta Terra diventa insostenibile e inabitabile gli uomini saranno costretti a migrare nello spazio.
Sopra l’Astronauta sta l’installazione in fibra, Takapau, di Mataaho Collective (Leone d’oro per il miglior artista partecipante), formato dalle artiste māori Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau. Il Takapau è una stuoia usata, tradizionalmente, nelle cerimonie, soprattutto durante il parto. Secondo i Māori l’utero è uno spazio sacro in cui i bambini sono connessi con gli dei. Il Takapau segna, nella nascita, il passaggio dal buio alla luce.
Il Nucleo contemporaneo ospita una sezione video, multifase mobile in continua evoluzione, dedicata al Disobedience Archive sulle relazioni tra pratiche artistiche e attivismo. L’archivio diventa un dispositivo dinamico e generativo.
La motivazione dell’assegnazione:
Il Collettivo Maori Mataaho ha creato una luminosa struttura intrecciata di cinghie che attraversano poeticamente lo spazio espositivo. Facendo riferimento alle tradizioni matrilineari dei tessuti, con la sua culla simile a un grembo, l’installazione è sia una cosmologia che un rifugio. Le sue impressionanti dimensioni sono una prodezza ingegneristica che è stata resa possibile solo dalla forza e dalla creatività collettiva del gruppo. L’abbagliante modello di ombre proiettate sulle pareti e sul pavimento rimanda a tecniche ancestrali e fa pensare a usi futuri delle stesse.
Aravani Art Project, un collettivo di donne cis e transgender, vuole diffondere positività attraverso dipinti murali. Quello realizzato per la Biennale Arte pone in relazione i corpi trans e la natura. Il colore è un elemento centrale delle loro rappresentazioni, una società multicolore e multiculturale.
L’Amazzonia peruviana è rappresentata da Santiago Yahuarcani, pittore e scultore autodidatta appartenente al clan Aimeni (clan dell’Airone Bianco) della Nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale. Nei dipinti di questo artista-sciamano troviamo i ricordi narrati dai suoi antenati, la conoscenza sacra delle piante medicinali, i suoni della giungla e i miti uitoto che spiegano le molteplici configurazioni dell’universo. Santiago Yahuarcani usa per i suoi dipinti tinture naturali su tessuti vegetali. La loro preparazione, parte integrante dei suoi dipinti, gli richiede una settimana di tempo.
Nei suoi lavori il territorio e i suoi abitanti sono sullo stesso piano. Dimostrano coscienza, affetto, memoria e intelligenza, forme di comunicazione che vanno al di là di quelle dei colonizzatori. Dialogano con il presente e si interrogano su un futuro collettivo. Il territorio è popolato da presenze, spiriti (guardiani) delle piante, degli alberi e degli animali. Secondo Yahuarcani il cambiamento climatico non è un fatto recente, ma fa parte della lunga storia di espropriazione coloniale, iniziata con lo sradicamento dei mondi spirituali e delle relazioni con il territorio.
Don’t Miss the Cue (2024, Uzbekistan) della giovane artista della diaspora uzbeka, Aziza Kadyri, racconta le identità delle donne migranti dell’Asia Centrale attraverso i tessuti e i ricami. Il lavoro audiovisivo è stato realizzato con le donne del collettivo Qizlar di Tashkent.
L’installazione pone in relazione il ricamo uzbeko Suzani con un generatore digitale di immagini. Lo spettatore diventa sia osservato che osservatore.
Per il Padiglione del Benin (alla sua prima partecipazione alla Biennale Arte) il curatore Azu Nwagbogu e il suo team hanno selezionato quattro artisti che invitano a esplorare le radici del femminismo africano. Everything Precious Is Fragile esplorando la storia del Benin affronta tematiche come la tratta degli schiavi, la figura dell’Amazzone e la religione Voodoo. Il racconto della storia di un Paese, della sua cultura e del ruolo che la donna riveste nella società locale, rappresentato dalla figura della guerriera. Si occupa della perdita della biodiversità e si interroga sulla fragilità, è una forza o una debolezza?
Il curatore ha spiegato che: “Tutto ciò che è prezioso è fragile è un’opportunità per tornare all’essenziale e ‘riflettere sul modo in cui trattiamo le cose che sono più importanti per noi’”. Secondo Nwagbogu la forza delle donne nella storia del Benin è in contrasto con la fragilità della vita e la vulnerabilità, che vanno accolte.
La cupola centrale dà una connotazione sacra allo spazio del padiglione. L’intenzione del curatore è che “l’atmosfera possa controbilanciare il ritmo frenetico della nostra vita quotidiana e ripristinare l’importanza della parola ‘cura’. Spero che le persone vengano al padiglione del Benin e rallentino davvero e dicano a se stesse: voglio restare qui perché qui c’è conoscenza”.
La scelta di prendere parte alla Biennale Arte 2024 è in qualche modo connessa alla recente restituzione (2021) di 26 tesori sottratti alla famiglia reale all’epoca della colonizzazione francese del regno di Danxomè. La mostra Art du Bénin d’hier et d’aujourd’hui, de la restitution à la revelation (Arte del Benin ieri e oggi, dalla restituzione alla rivelazione), allestita a Cotonou e riproposta in diversi Paesi, ha anticipato la partecipazione del Benin alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia. Un approfondimento sul pensiero Gèlèdé, basato sul concetto di rematriation, un’interpretazione femminista della “restituzione” non solo di oggetti ma anche della cultura di questa terra antecedente all’epoca coloniale.
Il Benin ha allestito un padiglione per mettere in luce gli artisti Moufouli Bello, Chloé Quenum e Ishola Akpo, insieme a Romuald Hazoumè, uno dei più famosi.
Il Padiglione Italia è nato dalla collaborazione tra l’artista Massimo Bartolini (Cecina, 1962) e il curatore Luca Cerizza È stato definito un padiglione sofisticato. In effetti è semplice, ampio, eppure profondo. Il titolo, Due qui/To Hear (sentire, ascoltare), è un’omofonia, un invito a considerare l’importanza dell’ascolto e della pausa. L’ascolto è la prima forma di attenzione verso l’altro e questo padiglione è una pausa dall’overdose di colori e input della visita all’Arsenale. Nel vasto spazio del padiglione (1500 mq coperti e 900 esterni) si è accolti da un suono che si riverbera in tutti gli ambienti e arriva anche l’esterno, modificandosi lungo il percorso.
Lo spazio è tripartito e il percorso ha una duplice entrata: dall’ingresso principale (che introduce in un ambiente minimalisti con una statuetta di un Bodhisattva seduta all’inizio di una lunghissima canna d’organo, l’ambiente più suggestivo) e dal Giardino delle Vergini, concepito come una prosecuzione del padiglione. Gli spazi sono connotati da tre diverse esperienze acustiche. Lo spazio centrale è un labirinto di tubi metallici per ponteggi, modificati per farli suonare come un organo. Il percorso culmina in una vasca circolare che contiene un’onda che pulsa costantemente. Due rulli musicali, giganti carillon, diffondono musica. Il curatore Cerizza presentando l’opera ha affermato: “La musica e il suono hanno da sempre una componente ritualistica dove l’elemento visivo e scultoreo sono fondamentali” e qui il ponteggio diventa un organo.
Il giorno dell’inaugurazione Il Sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha dichiarato dal palco (legittima libertà di espressione ma inopportuna, perché alla vigilia delle decisioni della Giuria internazionale): “A me questo Padiglione non piace!”. Condivisibile soltanto la sua osservazione sul fatto che sarebbe meglio non lasciare un padiglione così immenso all’espressività e creatività di un solo artista.
Di fronte all’entrata dell’Arsenale (Castello 2127A) troviamo rappresentata la Mongolia dall’artista Ochirbold Ayurzana (mongolo), che con il suo intervento invita a esplorare il tema dello “Straniero dentro di me”. In Discovering the Present from the Future usa delle sculture interattive.
Queste opere, tra cui il teschio a tre occhi, sono ispirate alla divinità buddhista Citipati. Una sorta di “memento mori” che ci ricorda l’impermanenza della vita.
GIARDINI
Il senso di questa Biennale esplode nel monumentale e coloratissimo murale realizzato dal collettivo brasiliano MAHKU (Movimento dos Artistas Huni Kuin) sulla facciata del Padiglione Centrale ai Giardini (vedi foto di copertina). Il murale racconta la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore). Il mito leggendario del passaggio tra il continente asiatico e quello americano attraverso lo stretto di Bering, per il quale gli uomini, in cambio di cibo, si fecero trasportare da un alligatore. Nel nucleo storico, intitolato Italiani Ovunque, presenti alcune opere di gusto orientale come La notte al Watt Pah Cheo di Galileo Chini.
Nel Padiglione Centrale sono presenti anche indigeni yanomami e sciamani. André Taniki è uno sciamano nativo della regione dell’alto Rio Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana. È unito da un sodalizio artistico con la fotografa Claudia Andujar e l’antropologo Bruce Albert. I disegni esposti sono stati realizzati, alla fine degli anni Settanta per rappresentare le visioni sciamaniche. Disegni dai colori vivaci che uniscono astrazioni e schemi figurativi in strutture che sembrano una rappresentazione cosmica così come vista dagli Yanomami. Una specie di cartografia visibile e comprensibile soltanto agli xapiri (spiriti ausiliari dello sciamano) e agli altri sciamani.
Nil Yalter (Cairo, Egitto, 1938; vive a Parigi, Francia), artista controcorrente attivista femminista turca, si è trasferita dal Cairo a Istanbul e infine a Parigi, dove risiede. Espone nel nucleo contemporaneo opere che trattano il tema della migrazione. In Topak Ev (1973) fa riferimento alle tende della comunità nomade Bektik dell’Anatolia centrale. Queste vengono realizzate dalle future spose, espressione dei ruoli di genere.
In Exile is a Hard Job (1977 2024) presenta video e fly-poster che documentano la vita degli immigrati ed esiliati. Il titolo, ispirato al poeta turco Nâzim Hikmet, è dipinto come uno slogan in lettere rosse. L’artista, premiata con il Leone d’Oro alla carriera, ha dedicato il suo premio “alla pace nel mondo”.
Jeffrey Gibson (Colorado Springs, 1972) ha creato una modalità interdisciplinare e un linguaggio visivo ibrido che fa riferimento alla storia americana, indigena, queer e alle sottoculture popolari globali. Di discendenza Cherokee e Choctaw (è il primo artista indigeno americano a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia) e un’identità queer, Gibson è cresciuto nelle più importanti città degli Stati Uniti, Germania e Corea del Sud, esperienze che hanno influenzato la sua opera.
Kathleen Ash-Milby (Navajo) è la commissaria del padiglione degli Stati Uniti e curatrice della mostra di Gibson. È la prima nativa americana a organizzare un padiglione degli Stati Uniti. Il suo linguaggio risponde a un’estetica intertribale: le perline (merce di scambio tra nativi e colonizzatori), i tessuti e i ready-made. Tecniche che si mescolano con i linguaggi visivi del modernismo.
Alla cromofobia dell’arte contemporanea Gibson contrappone le sue geometrie coloratissime. La sua pratica artistica riflette le realtà delle comunità indigene negli Stati Uniti.
Nel padiglione degli Stati Uniti l’artista ha realizzato una visione inclusiva, in cui tutte le persone sono accettate e amate, attraverso sculture multimediali, dipinti realizzati con tecniche miste, murales site-specific, un’installazione video multicanale e una grande installazione esterna.
Due sculture alte oltre tre metri, The Enforcer (2024) e We Want To Be Free (2024), sono realizzate con perline, nastri, frange, sonagli di latta e ceramica smaltata. The Enforcer fa riferimento al XIII, XIV e XV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Noti come “emendamenti della Ricostruzione” in quanto abolirono la schiavitù e avrebbero dovuto proteggere i diritti civili dei cittadini ex schiavi.
Così le sculture di Gibson su queste leggi sui diritti civili del XIX e XX secolo sono ancora attuali e toccanti. Infatti ancora oggi molte persone di colore non possono esercitare il diritto di voto, non hanno seggi elettorali vicino alle loro case, soprattutto nelle riserve indiane.
La mostra si conclude con un’esperienza multimediale, un omaggio al matriarcato indigeno e al potere curativo dell’arte. Un’installazione video con immagini del volto, dei piedi e dell’intero corpo di una ballerina che sono moltiplicate su più schermi. Un finale con musica e danza allegre che è un invito a continuare a muoverci, a non essere immobili di fronte all’ingiustizia e a portare altri con noi, perché la danza è comunitaria e la comunità è alla base delle culture indigene.
Il presente è il limite tra il passato che è svanito e un futuro imperscrutabile. Ciò è valido per chiunque ma la migrazione implica il vivere all’intersezione di diverse appartenenze. Il progetto tedesco Thresholds (la visita del Padiglione Germania ha comportato una lunga fila) esplora la storia e il futuro in tre scenari. Il portale di entrata è inaccessibile, è sepolto da una montagna di terra e polvere. Nel primo scenario, Yael Bartana parte da un presente percepito come un mondo sull’orlo della distruzione totale. Nel secondo scenario, il regista d’opera e teatro Ersan Mondtag propone una narrazione frammentaria.
In un terzo scenario è allestito in un altro luogo fuori dai Giardini: l’isola della Certosa. Qui, gli artisti Michael Akstaller, Nicole L’Huillier, Robert Lippok e Jan St. Werner hanno creato uno spazio evocativo.
Il progetto di Yael Bartana e Ersan Mondtag attraversa la storia della Germania, il fallimento del sogno europeo.
Al centro del Padiglione Mondtag ha ricostruito – combinando installazione, performance, video, scultura, musica e rituale collettivo – un edificio dove i visitatori entrano. L’ispirazione deriva da un poema di Bertold Brecht, che invita a “una cerimonia per onorare finalmente / il Lavoratore Ignoto / delle grandi città nei continenti popolosi”, piuttosto che il milite ignoto.
Salendo le scale a chiocciola si entra in una realtà domestica animata da una famiglia spettrale (padre, madre e tre figli) nella Berlino Ovest degli anni Sessanta/Settanta. Sono frammenti di esistenza che si animano traendo spunto dalla biografia del nonno dell’artista, Hasan Aygün, emigrato da una povera regione rurale turca. Arrivato in Germania ha lavorato per decenni nella compagnia Eternit, causa della sua morte per cancro ai polmoni dopo la chiusura della fabbrica e la proibizione del materiale.
L’Eternit, uno dei miti del “miracolo economico” tedesco, si rivela presto una trappola mortale. I personaggi che abitano l’appartamento sembrano attraversarci, ci passano accanto senza vederci. La polvere (ricordo dell’Eternit) è ovunque e rende offuscato e pesante il percorso. Il salto temporale si compie con l’astronave che sta partendo sul megaschermo e che si intravede dalla finestra con le tendine coperte di polvere. Industrializzazione, morte, tragedia e progresso sembrano condurre al fallimento del sogno europeo. Una schiavitù industriale a cui sembra ribellarsi la musica turca o il vecchio che in alto si libera, nudo, dal suo sudario e si affretta verso la scala. Desiderio di riscatto e rinascita. Un’umanità dolorante che sembra voler decollare – con le sue speranze, i suoi traumi e le sue cadute – sulla nave spaziale, progettata da Bartana, diretta verso lontane galassie.
Il padiglione Svizzero immaginato dall’artista svizzero-brasiliano Guerreiro do Divino Amor ironizza sulla autorappresentazione celebrativa dei padiglioni nazionali alla Biennale. Ricercatore, documentarista dall’immaginazione barocca e onirica, creatore di mondi digitali, Guerreiro do Divino Amor, coadiuvato da abili performer, ironizza sugli stereotipi con cui rappresentiamo noi stessi e il mondo.
Il suo progetto è diviso in due parti, Miracle of Helvetia e Roma Talismano. La mostra Super Superior Civilizations presenta il sesto e il settimo capitolo del progetto cartografico mondiale Superfictional World Atlas, a cui l’artista sta lavorando da vent’anni.
Il suo atlante affronta, con tagliente ironia e contemporanea leggerezza, questioni politiche fondamentali come la gestione del potere e dell’immaginario collettivo da parte dei media, della finanza e della religione. Il risultato è un’immersione in mondi immaginari disseminati di elementi classici e posticci, simboli di una presunta superiorità razziale occidentale. La Svizzera, fittizio paradiso, è evocata da slot machine, casinò e bucolici, stereotipati paesaggi da cartolina mentre per Roma la cantante transessuale brasiliana Ventura Profana incarna la lupa capitolina (madre universale) e canta: “Io sono una lupa, Sono una donna, Sono una madre, Sono italiana, Sono cristiana!”. Il suo variopinto immaginario barocco, felliniano, diverte ma politico e fa riflettere.
La Francia, che ancora fa i conti con il colonialismo, ha affidato all’artista Julien Creuzet (Parigi, 1986) il racconto della sua idea della Martinica, luogo dove è cresciuto. L’artista mette in scena, al Padiglione Francia, un mondo marino ibrido. Sulle pareti sono sparsi i versi delle sue poesie in francese creolo della Martinica, da cui deriva il nome della mostra: Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune. Mentre alcune sculture sono appese al soffitto.
Reti grandi colorate, intrecciate e annodate, scandiscono lo spazio del padiglione, mentre su schermi scorrono dei video che simulano coloratissimi fondali sottomarini, futuristici, fantascientifici.
Il visitatore è immerso in un racconto sonoro di forme, volumi e linee in movimento. Un mondo e un linguaggio nuovo che si realizza davanti ai nostri occhi.
Il Padiglione Australia con il progetto “Kith and Kin” dell’artista aborigeno Archie Moore (Leone d’oro per la migliore Partecipazione Nazionale) è una interessante riflessione sul fatto che “siamo tutti parenti”. Sulle pareti nere del padiglione l’artista ha tracciato le sue parentele kamilaroi e bigambul. Un albero genealogico di circa 65mila anni. La motivazione dell’assegnazione:
In questo quieto padiglione di grande impatto, Archie Moore ha lavorato per mesi per disegnare a mano con il gesso un monumentale albero genealogico della First Nation. Così 65.000 anni di storia (sia registrata che perduta) sono iscritti sulle pareti scure e sul soffitto, invitando gli spettatori a riempire gli spazi vuoti e a cogliere la fragilità intrinseca di questo archivio carico di lutto. In un fossato d’acqua galleggiano i documenti ufficiali redatti dallo Stato. Risultato dell’intensa ricerca di Moore, questi documenti riflettono gli alti tassi di incarcerazione delle persone delle Prime Nazioni. Questa installazione si distingue per la sua forte estetica, il suo lirismo e la sua invocazione per una perdita condivisa di un passato occluso. Con il suo inventario di migliaia di nomi, Moore offre anche un barlume alla possibilità di recupero.
I popoli nativi australiani (che noi chiamiamo aborigeni) sono tra i più antichi del pianeta. Il murale dell’artista ricostruisce le sue parentele lungo 65.000 anni fino a includere antenati comuni a tutti gli esseri umani. Archie ha aggiunto documenti d’archivio riferiti a suoi parenti per attestare come le leggi coloniali abbiano determinato pesanti imposizioni ai nativi. La storia familiare diventa universale.
È stato rilevato come in questa Biennale sia poco presente la tecnologia (che fa parte del nostro presente e futuro) ma come imputare ad artisti indigeni di avere poco a che fare con la tecnologia? È stato evidenziato come questa Biennale sia poco avanguardistica, il 60% degli artisti sono deceduti, ma ripensare alla storia, alle nostre radici e uscire da un etnocentrismo culturale e “rendere visibili gli invisibili” è, a mio avviso, un messaggio potente di cui si avverte l’urgenza.
Informazioni
StranieriOvunque → BiennaleArte_2024
Acquista il biglietto → bit.ly/BiennaleArte2024_Tickets